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Intervista a Margine Operativo, alla cura del festival da 24 anni

Durante le giornate del festival Attraversamenti Multipli, prima, durante e dopo le performance, abbiamo raccolto le domande che il festival ci faceva nel suo svolgersi, nel suo entrare in relazione con noi. Ne abbiamo parlato tra noi, abbiamo condiviso domande con i giornalisti culturali che frequentano il festival; abbiamo accolto in giorni diversi, nel nostro cerchio, Andrea Pocosgnich, Carlo Lei e Lucia Medri. Ci siamo fatte ascoltare e abbiamo ascoltato cosa loro vedevano del festival. 

A incontrare poi di persona Alessandra Ferraro e Pako Graziani seduti nel Parco di Tor Fiscale con le domande di tutte, siamo con Jamira, partecipante e servizio civile di Asinitas, Zara, tutor del laboratorio, Federica, partecipante e referente per la scuola di italiano di Asinitas e Moha, reporter e attivista ambientale. Poi, piano piano, durante la lettura, immaginate l’arrivo di tutte le altre persone del laboratorio; ma intanto, sotto l’albero del Parco di Tor Fiscale iniziamo il dialogo con Margine Operativo.

foto Carolina Farina

Perché un festival, che cosa volete dire alla città, qual è l’importanza e cosa vi motiva ad organizzarlo?

Alessandra: Nel 2001 il festival è nato all’interno di un’idea di operazione artistica, l’abbiamo sempre immaginato come un grande spettacolo fatto da tanti corpi, un organismo multiplo, è nato da questa esigenza. Iniziamo la nostra ricerca come compagnia teatrale, come un gruppo artistico con un’esigenza da subito forte però di espandersi fuori da sé, di incontrare altre realtà, anche perché nasciamo all’interno di un centro sociale occupato autogestito, il Forte Prenestino, quindi anche dentro una dinamica di comunità e abbiamo sempre mantenuto questo elemento. Il festival è nato da questa dinamica, per questo non ci siamo mai definiti organizzatori ma usiamo sempre sempre il termine “curare”, che è un termine che dà idea della cura, dell’attenzione. Quando è nato nel 2001 non avremmo mai pensato che la traiettoria del festival sarebbe arrivata ad oggi, ventiquattro anni dopo. Ventiquattro anni sono tanti e la  dinamica di creazione del festival l’abbiamo sempre ibridata come gruppo teatrale con il lavoro artistico sui nostri lavori, e con l’incontro con altre realtà. 

Negli anni c’è stata questa voglia di incontrare altri artisti e di rimanere molto connessi con il ragionamento sulla città, che è una nostra sana ossessione, definiamola così. Il lavoro nei paesaggi urbani, negli spazi urbani, negli spazi pubblici: questa è stata la caratteristica da sempre di Attraversamenti Multipli anche quando andava meno di moda rispetto ad adesso. Nel 2001, quando abbiamo iniziato, era qualcosa di molto strano; inizialmente abbiamo avuto anche molta difficoltà di interlocuzione con le istituzioni che non capivano molto bene l’operazione. Quindi lo spazio della città l’abbiamo sempre attraversato con il festival dal 2001 in poi. È stato un festival nomade fino al 2017, come scelta: abitare i luoghi, cercare un dialogo con gli spazi, immaginare l’operazione artistica come un corpo in mezzo agli altri corpi, come un elemento in mezzo agli altri elementi, quindi l’elemento dell’arte performativa come qualcosa che puoi incontrare come incontri una persona, che sia uno degli elementi del paesaggio della città.

Pako: E poi dal 2017 avevamo l’esigenza di sedimentare tutto quello che siamo: tendenzialmente siamo delle soggettività molto inquiete, ci piace creare, costruire, e ci piace anche cambiare. Dopo tanti anni di nomadismo quindi, dopo aver programmato anche nelle stazioni della metropolitana, all’interno delle università, avevamo l’esigenza di fermarci un attimo e sedimentare tutto quello che avevamo fatto. E quindi abbiamo scelto questo quadrante della città perché qui c’erano tutta una serie di motivazioni ma anche di alleanze. Al Quadraro c’erano e ci sono   il Centro Sociale Spartaco, la Palestra Popolare del Quadraro, la Biblioteca Cittadini del Mondo, tutta una serie di presidi che costituivano e costituiscono comunità dialoganti tra di loro, anche molto radicali.
Nel tempo questa città è stata governata da amministrazioni diverse; spesso diciamo di aver attraversato anche il deserto perché il periodo più faticoso per noi sono stati i cinque anni dell’amministrazione Alemanno. Avevamo bisogno di sedimentare e ci siamo fermati al Quadraro, Largo Spartaco e zone limitrofe, come abbiamo sempre scritto: da Garage Zero ai parchi, alle strade. Ma proporre un festival negli spazi urbani e nei luoghi pubblici è possibile solo con questa dinamica delle alleanze, perché non puoi mai fare quello che facciamo noi calato dall’altro, altrimenti vieni vissuto come un alieno, vieni vissuto come un corpo estraneo che vuole colonizzare in qualche modo gli sguardi, le vie, le visioni.

Alessandra: Avere relazioni con realtà che lavorano in maniera continuativa su uno spazio, creare un co-working, una collaborazione in cui tu porti un festival di eventi artistici, però dentro un ragionamento anche di collaborazione, per cui tu investi e capisci l’esigenza di un luogo.

E poi questo ulteriore attraversamento da Largo Spartaco al Parco di Tor Fiscale nelle ultime due edizioni, in un luogo nel quale magari c’è meno passaggio di persone ma c’è più la scelta di venire. Come ha cambiato il festival questo passaggio? Che cosa ha guadagnato secondo voi il festival e che cosa ha lasciato in questo cambio tra una piazza e una dimensione parco?

Alessandra Ferraro: Cambia molto sicuramente. Due anni fa, nel 2022, abbiamo fatto 5 giorni a Largo Spartaco, e due giornate qui al Parco Tor Fiscale, quindi abbiamo intrecciato la dimensione asfalto/strada, chiamiamolo cemento-urbano, con il verde. Proprio nella prospettiva però, l’anno dopo, di spostarsi completamente al parco di Tor Fiscale. È stata una scelta quella di andare a lavorare negli spazi verdi che non avevamo mai fatto prima; anche  quando abbiamo lavorato fuori da Roma, a Napoli o a Genova, comunque abbiamo sempre lavorato negli spazi del paesaggio urbano, quindi per noi era un cambiamento completo; anche se questo è un parco urbano, quello che ci interessa è la natura urbana. Contemporaneamente è anche uno spazio molto bello e quindi anche molto pericoloso, difficile perché può essere uno spazio talmente bello, che diventa più forte quasi delle opere. È uno spazio che richiede quindi un lavoro molto preciso sugli allestimenti, molto preciso anche per gli artisti in modo tale che ci sia anche un bilanciamento tra la fisicità dello spazio e l’opera. E poi c’è l’elemento delle persone: questo comunque è un parco pubblico, quindi un attraversamento c’è sempre, i ciclisti che passano, i bambini, però sicuramente non è attraversato tanto quanto Largo Spartaco, o tanto quanto le metropolitane.
E quindi sì, è cambiato, però, relativamente sul discorso del pubblico perché comunque l’incontro casuale continua a esserci, per quanto inferiore a livello numerico. E questo racconta anche di quanto poco siano vissuti i parchi urbani rispetto alle piazze, quanto siano depotenziati. Ad esempio non ci sono adolescenti che frequentano il parco. E fare festival è anche un modo per rivitalizzare degli spazi verdi che hanno un potenziale enorme, soprattutto nel momento di cambiamento climatico che viviamo: adesso in città ci sono 5 gradi in più, qui 5 gradi in meno. Si apre anche un ragionamento sul potenziale, attraverso le arti performative, degli spazi della città. 

Pako Graziani: Il nodo principale in tutto questo è anche legato al discorso del nostro lavoro sulle performing art e quindi sul contemporaneo; non facciamo animazione culturale, non facciamo intrattenimento e quindi portiamo dei codici che sono comunque legati a un percorso di ricerca, che sono dei percorsi più complessi e quindi portarli in spazi non deputati allo spazio pubblico è una doppia sfida perché oltre a costruire le alleanze devi in qualche modo anche tutelare e proteggere quello che stai proponendo, questa è stata la grande sfida del festival.

Alessandra Ferraro: è anche una scelta politica la nostra proposta, secondo noi è importante che il festival si svolga in uno spazio pubblico.

Pako Graziani: è una ricerca che noi uniamo sempre a un’altra parola che è accessibilità. Quindi sì il linguaggio, sì la ricerca, sì la sperimentazione, però poi c’è qualcuno che deve partecipare e assistere a quello che tu stai facendo e quindi in qualche modo bisogna lavorare sulle mediazioni.

foto Carolina Farina

Siete collegati a questa rete che si chiama Ecoritmi. Qual’è la vostra filosofia, e come vivete questa trasformazione ecologica? E come influisce sulla scelta degli spettacoli e come li definisce nel site-specific?

Alessandra Ferraro: In questa traiettoria dello spazio verde urbano c’era proprio questa idea di fare un ragionamento sulla sostenibilità, cioè cosa significa questa parola e cosa può significare per l’universo delle arti performative perché secondo noi anche qui c’è un discorso politico. Non si può fare finta che non esista un’emergenza climatica che sta esplodendo, che ci sia un innalzamento della temperatura che produce una serie di problematiche economiche, sociali, guerre e distruzioni e migrazioni forzate. Qui abbiamo creato, nel nostro piccolo, un’attenzione anche su questo e ci siamo posti noi dentro questo ragionamento.

Pako Graziani: Questa sostenibilità è anche frutto di lavoro programmatico nell’allestimento del festival: con materiale specifico e con i tecnici che sono parte del team di Attraversamenti Multipli che sono tutti professionisti e compagni di viaggio. È stato fatto tutto un calcolo rispetto al consumo energetico degli allestimenti, quindi di volta in volta si ha sotto controllo quante casse vengono accese, quanti led vengono accesi, quanto consuma un videoproiettore: c’è un piano preciso sul consumo, tutto quanto è bilanciato e programmato permettendoci di lavorare attaccandoci all’impianto “casalingo” del parco da 3 kW.

Alessandra Ferraro: Si, c’è un discorso concreto sul discorso del consumo, sul come si fa a creare un “disallestimento” che è allestimento al tempo stesso, arricchendo e non impoverendo le scelte artistiche.

Pako Graziani: Mantenendo quindi la qualità, la spettacolarizzazione, gli effetti. Oggi la tecnologia ti permette di lavorare con meno consumi in una dimensione che prende in considerazione l’emergenza climatica. 

Alessandra Ferraro: La sostenibilità è declinata quindi in vari modi; questo ragionamento lo proponiamo anche a tutte le compagnie, agli artisti, all’interno del dialogo con le realtà che attraversano il festival e che ogni anno scegliamo, all’interno di un lungo processo fatto di dialogo, di sopralluoghi, di tantissima processualità artistica: il festival è la punta di un iceberg. L’idea che abbiamo proposto un po’ a tutti era, appunto, di immaginare un qualcosa che debba vivere qui come opera, in un parco urbano.

Ecoritmi è una rete nata intorno a tre soggetti, Teatro Palladium, Eticae, e noi, ed è una rete nata attorno alle tematiche del PNRR sulla sostenibilità e la transizione energetica. Per noi è stata un’opportunità poter implementare la processualità artistica con delle residenze artistiche — che già proponiamo da anni — nei paesaggi urbani naturali, tramite una call nazionale che ha dato ospitalità a tre compagnie selezionate. 

Sempre intorno a questa traiettoria un altra proposta è stato  il lavoro che ha presentato  Giselda Ranieri con Vetro — una performance che ha la sostenibilità proprio come elemento portante perché usa impulsi sonori generati dalle piante, quindi con un ragionamento di sostenibilità anche estetica e  formale — che è stato costruito per il Festival attraverso due laboratori con altri due progetti che curiamo Corpo Città e Selva: dal laboratorio di danza nella natura urbana  sono nate delle suggestioni che ci ha proposto di continuare a sviluppare. Da lì è nato lo spettacolo che avete visto; quindi anche qui, il tutto nasce da lontano, da un percorso fatto insieme.

Così come per Ruth di Francesca Cola, un ragionamento su come  sopravvivere in un pianeta danneggiato. Una  domanda strettamente connessa con la nostra epoca, e noi  in questa edizione del festival l’abbiamo declinata sia ospitando alcuni spettacoli che la affrontano come contenuto, sia sulla forma: come abitare uno spazio, come attraversarlo in maniera morbida, come essere dialoganti con il luogo, come poter non essere impattanti ma essere un elemento tra gli elementi. Crediamo molto nel processo artistico e pensiamo che sia importante innestare questo ragionamento sul rispetto della natura, non usando ad esempio subwoofers perché disturbano la natura o allestendo molte performance alla luce del sole, utilizzando il momento del crepuscolo: quel momento anche molto magico, come si può utilizzarlo, senza andare ad impoverire, ma rafforzando l’intenzione artistica?

C’è un programma con artisti e artiste provenienti da paesi diversi e con arti diverse. È davvero interessante. Perché avete scelto questa varietà? E se conosciamo un gruppo di artisti in Iran o in un altro paese che lavora bene, come potrebbe proporsi?

Alessandra Ferraro: Riceviamo tantissimo materiale, sui nostri siti sono pubblicati i nostri indirizzi mail e  le mail, le controlliamo continuamente, ci teniamo a rispondere sempre. Riceviamo moltissime proposte, le leggiamo tutte e quindi se uno vuole proporre una performance è facile trovarci. E poi chiaramente si lavora anche sulle reti, molto spesso si presentano compagnie che ne conoscono altre che abbiamo ospitato. Rispetto alla scelta dei lavori, vediamo tutto quello che c’è. Facciamo un lavoro lunghissimo, in realtà non ci si ferma mai. Riceviamo tanti proposte e incontriamo tanti artisti  come Akira quest’anno, che è una proposta che ci è arrivata dalla Spagna. Alcuni degli artisti che potete vedere al festival li abbiamo conosciuti perché ci è arrivata una loro  proposta ci inviano il il loro materiale, guardiamo i video, facciamo degli incontri online e in presenza,cerchiamo di andare a vedere di persona le loro performance e  si parla, si capisce il lavoro, altri invece siamo noi che li che li intercettiamo dopo aver visto delle loro performance .  È molto sfaccettata l’operazione di direzione artistica, non c’è un solo modus operandi.

Pako Graziani: E poi ci sono molti artisti con cui in questi anni, come avete potuto vedere, c’è un rapporto continuativo, anche di crescita. Come per esempio Carlo Massari, Salvo Lombardo, Giselda Ranieri, Roberto Latini, ci sono degli artisti che ritornano, con cui c’è un feeling legato all’opera, ai processi artistici e all’attitudine di lavorare in questi spazi.

foto Carolina Farina

C’è sembrato che quest’anno ci sia nella programmazione più danza rispetto agli anni passati, è così? È dovuto a una motivazione particolare?

Alessandra Ferraro: Attraversamenti Multipli da sempre è un festival multidisciplinare e lavoriamo moltissimo da tanti anni con una forte presenza della danza, ma che non è danza. Forse si la domanda è “perché c’è più danza”, e credo sia perché quel pezzo di scena artistica contemporanea è quella che sta sperimentando di più dei formati particolari. E quindi è una danza che non è danza, però che lavora molto sulla creazione di altri ragionamenti. È quella più mobile in questo momento, più interessante, più vicina a un discorso di lavoro sul site specific ma soprattutto su dinamiche anche con formati temporali e spaziali particolari e partecipativi.

Come il gruppo di persone che partecipano al laboratorio di redazione multilingue può trasformare il festival? Quali domande porta rispetto accessibilità, condivisione, comprensione e fruizione? La presenza, gli scambi con voi, con il pubblico, con gli artisti, gli articoli, hanno cambiato qualcosa?

Alessandra Ferraro: Da anni rilanciamo il laboratorio di quella che è oggi la  Redazione Multiculturale (qui, la presentazione del laboratorio di quest’anno), che è cambiata, cresciuta, perché per noi è molto importante. È importante per avere uno sguardo, soprattutto multiculturale, perché comunque quella italiana è una scena ancora troppo bianca, sicuramente.

Quindi a noi serve moltissimo capire come vengono viste delle opere che per noi funzionano, però da un altro punto di vista  non sappiamo se hanno lo stesso impatto. Mi ricordo che quando ho letto un articolo su Roberto Latini, a Garage Zero, mi emozionai; era favoloso, perché un ragazzo che non sapeva l’italiano era comunque completamente entrato dentro lo spettacolo attraverso il suono, attraverso l’emozione. Quindi per noi è molto importante come feedback, come elemento per capire anche le criticità; è come una lente di ingrandimento, che ringraziamo, è un elemento che con il festival si alimenta vicendevolmente.

Pako Graziani: Abbiamo spesso anche dei riscontri dagli artisti che in tutti questi anni sono stati molto felici dei feedback di quello che veniva riportato nel Blog, perché completamente fuori contesto dalla critica convenzionale. Qui quello che torna all’artista è qualcosa di molto emozionante, molto vivo e c’è una grande riconoscenza; gli articoli sono ricondivisi ed è qualcosa di prezioso per voi, per noi, ma anche per gli artisti che sono cresciuti in questo senso, anche come indicazione sui propri lavori. In genere la critica è una critica molto tecnica e distaccata, qui stiamo parlando comunque di una visione, di suggestioni e di un intervento emotivo, autobiografico, che costruisce dei rimandi. Non a caso molti articoli dei laboratori di redazione di questi anni li abbiamo inseriti anche nel libro sui vent’anni di Attraversamenti Multipli (qui, il racconto); lì abbiamo scelti perché entravano profondamente nei lavori. Anche nella dimensione della lettura, è come se si aprisse una specie di rete che crea accessibilità. Non è una lettura respingente.

Alessandra Ferraro: Sono veri, vitali, perché non entrano solo “dentro” il lavoro, ma hanno uno sguardo anche sul “fuori” del lavoro; è una visione sul “dentro e fuori” che è quello che ci interessa. Quello che ci è sempre interessato è un pubblico veramente trasversale che non sia solo di addetti ai lavori. Torna il discorso, per noi centrale, di essere un corpo e mezzo agli altri corpi.