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Dentro la redazione del festival con una pratica di condivisione

Il Tangram è un gioco da tavola di origine cinese: sette pezzi di legno (o altro materiale rigido) di forma geometrica presenti in una scatola quadrata, devono essere scomposti e poi ricomposti per formare le figure di animali e oggetti, illustrate nel manuale di istruzioni. 

Nell’antica Cina, il gioco veniva chiamato semplicemente “Tavola dei sette pezzi”, oppure “Tavola della sapienza” perché di stimolo all’intelligenza e alla creatività. Introdotto in Occidente nei primi dell’Ottocento, il gioco viene denominato dagli inglesi “Tangram” unendo il nome della più illustre dinastia cinese, i Tang, e gram che significa segno o immagine. Diventa subito molto popolare, amato e studiato anche da intellettuali e scrittori (come ad esempio Lewis Carroll, l’autore di “Alice nel Paese delle Meraviglie” – “Alice in Wonderland”- che ne era un vero cultore).  

Come si gioca a Tangram? Formando le figure modello con tutti e sette i pezzi geometrici, che sono: un quadrato, un rombo e cinque triangoli (di cui due doppi – piccolo e grande).

In Italia il Tangram era inizialmente conosciuto come “rompicapo cinese” e, in effetti, il gioco ancora oggi risulta essere una vera sfida all’intelligenza e alle capacità di chi ci si cimenta. Per fortuna in caso di difficoltà, quando cioè sembra impossibile riprodurre il modello con le proprie forze, si può ricorrere alle soluzioni contenute nei manuali. Con i sette pezzi si possono formare oltre mille figure diverse, ma nulla vieta di comporre a piacere figure riconoscibili che suggeriscono oggetti della vita reale o altro, creando qualcosa di nuovo.

Da questo principio è scaturita l’idea di denominare Tangram il foglio di lavoro condiviso di Google Drive, con tutta la REM, la redazione multiculturale del blog del Festival “Attraversamenti multipli 2024”: perché noi, tutti e tutte noi, siamo un Tangram di culture, lingue ed esperienze. Sin dal primo incontro ci siamo prese l’impegno di segnare delle frasi o delle parole che ci avessero colpito “dal momento in cui eravamo entrate dal cancello del parco fino ad ora”. Era interessante pensare al fatto che il festival iniziasse proprio nel momento in cui si varcava l’ingresso del parco e chissà poi dove l’esperienza di ognuno lo portava uscendo a fine serata. Attraverso i nostri corpi – i cinque sensi, il cervello, l’anima, il cuore… – ogni volta creavamo gli elementi da ricomporre per formare nuove immagini, nuovo senso, in un gioco di infinite possibilità. E quando era impossibile farlo da soli e da sole, allora lo facevamo a più mani, a più teste, ognuno come sapeva fare. Noi, insieme.

Giorgia condivide alcune impressioni, a distanza di una settimana dall’ultimo giorno del Festival, conclusosi a Toffia, piccolo borgo medievale in provincia di Rieti.

“Sono tante le parole che risuonano nelle nostre teste. Parole pronunciate con lentezza e scandendo bene le sillabe, parole in lingue diversissime tra loro. Troppo poche le parole che siamo riuscite/i a scrivere, molte le abbiamo solo registrate e tante le abbiamo perse nell’aria. Se penso al percorso che una parola sentita al festival, spiegata e tradotta alle compagne, possa aver fatto per tutta la città, mi viene in mente la ramificazione degli alberi di un bosco. Una rete fitta, di cui si perdono le tracce di quanto sia ‘ovunque’. E allora penso che anche il festival quest’anno sia davvero arrivato ovunque: tra le traduzioni in inglese, francese, farsi, arabo, bangla, per cercare di connetterci sulla stessa linea di significato, tra le videochiamate ai parenti lontani durante le performance e i momenti della redazione, tra i racconti vis-a-vis fatti poi con gli amici del quartiere.”

Il gruppo della redazione si è composto da persone molto diverse tra loro, tra cui gli studenti e le studentesse della scuola di italiano di Asinitas, centro interculturale che dal 2005 lavora con sede a Tor Pignattara, e della biblioteca e scuola Cittadini del Mondo, con sede al Quadraro, entrambe con le loro insegnanti: ciò ha determinato un ricco scambio di visioni, esperienze e lingue.

Far parte della redazione è stato un modo di attivare l’ascolto e lo sguardo – e il senso critico – e per qualcuno e qualcuna continuare il percorso didattico iniziato già ad ottobre con la scuola. È stata un’occasione per vivere un tempo fuori dalla scuola di italiano ma di continuare ad immergersi nella lingua (e nei linguaggi) in un contesto di confronto e libera espressione. Scrivere sul documento condiviso, a volte nello stesso momento con il rischio di scontrarsi con la riga di qualcun altro, significava dare forma e corpo ad una pagina bianca, che si componeva all’improvviso di parole e frasi in lingue diverse: tutti e tutte potevamo vedere cosa veniva scritto, ma non direttamente da chi, mantenendo piuttosto l’identità del gruppo. Ad ogni fine giornata avevamo il nostro file condiviso, che poi rileggevamo all’incontro del giorno dopo.

Creare un proprio account gmail, scaricare l’app di drive per la scrittura, lettura e modifica di un testo, condividere un documento, sono state alcune delle abilità socio-informatiche, non scontate, che abbiamo messo in campo utilizzando il telefono, in tempo reale, direttamente dal festival. Seguiva poi la composizione di un gruppo di lavoro formato da poche persone, che avrebbe poi scritto effettivamente l’articolo da pubblicare sul blog. Tutto era concesso: lingue, disegni, audio, foto, poesie, canzoni, citazioni, references di tutti i tipi, qualsiasi cosa che la visione di quella o l’altra performance aveva suscitato in noi. Ad ogni giornata di Festival corrispondeva un foglio di lavoro; come titolo, la data. L’ultimo giorno abbiamo stampato tutte le pagine e abbiamo riletto tutte le parole, ormai familiari e comuni, perché nostre, e abbiamo provato a mettere insieme tutte quelle parole e frasi, ognuno e ognuna di noi come si sentiva, agganciandosi a quelle dell’altra. Sono nate delle composizioni dalle forme inventate, poetiche, bizzarre, fatte di tutte quelle esperienze e storie condivise. Federica le ha poi combinate con le immagini.

Giorgia aggiunge: “È bastato un albero di susine e una serie di teli stesi a terra, che sono diventati poi il nostro tappeto volante, a creare una dimensione di ascolto profondo. L’entusiasmo che ogni persona ha mostrato nel voler leggere una sinossi a voce alta, nel voler scrivere un pezzo di articolo, nel voler condividere una propria opinione cercando confronto e conforto nelle idee delle altre. La costanza nel frequentare tutte le giornate di festival, magari dopo una giornata di lavoro come carpentiere sotto al sole. La gioia nel vederci e sentirci vicini. La meraviglia di farlo attraverso l’arte, lo sguardo attento, le menti aperte e il cuore in mano. Senza nemmeno accorgercene abbiamo costruito un porto sicuro e commuove avere la fortuna di esserne parte.”

Dorina Alimonti, Giorgia Belotti, Jamira Colapietro, Federica Mezza