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Foto Carolina Farina

Siamo al crepuscolo, sull’erba in salita del Parco di Tor Fiscale, per tutta la durata dello spettacolo (Il mondo altrove: una storia notturna, di Nicola Galli), il danzatore, all’interno di un cerchio illuminato, indossa una maschera che copre completamente il volto. La maschera sottrae allo sguardo del pubblico il volto, cioè ciò che nell’immediato riconosciamo come espressione umana. Il corpo privato della sua componente più familiare diventa una possibilità nuova, la possibilità di incarnare qualsiasi altro corpo umano e non umano, animale e vegetale. Contempliamo un corpo nuovo, in cui riconosciamo tratti simili ai nostri ed elementi estranei. Ed è proprio nella contrapposizione tra ciò che è riconoscibile e familiare e ciò che invece ci appare estraneo e sconosciuto, che si realizza la tensione verso l’incontro. Una tensione che giunge al culmine nel momento in cui la figura del danzatore si avvicina al pubblico e instaura un momento di contatto con una persona lì presente. Anche in questo momento le due figure continuano ad essere reciprocamente estranee mentre si studiano da più vicino. Allo stesso tempo l’incomprensibilità dei segni lascia spazio ad una vicinanza intima, archetipica. Un incontro intenso, che così costruito si libera dall’apparenza e da uno sguardo razionale e linguistico, ancorandosi invece al corpo, al prelinguistico, a ciò che è comune al vivente. Il mondo altrove è uno spettacolo che riporta alla natura profonda della rappresentazione performativa: all’incontro con l’altro e al viaggio nella conoscenza di sé, assottigliando il confine tra ciò che è conosciuto e ciò che è sconosciuto e mettendo in luce la meraviglia e la preziosità della differenza. (Giulia Raccah)

Foto Carolina Farina

Dopo lo spettacolo, la Redazione, attorno al tavolo del bar ristorante del casale di Tor Fiscale, comincia una conversazione con Nicola Galli autore e interprete di Il mondo altrove: una storia notturna

Redazione – Da dove nasce il tuo processo di ricerca? E cosa puoi dirci sulla ritualità della maschera?

Nicola Galli:  Il processo di ricerca della creazione “Il mondo altrove” è nato da una fascinazione per la simbologia del teatro No giapponese e più in generale per le pratiche rituali di tradizioni altre rispetto a quelle occidentali. Ho desiderato approfondire gli studi antropologici dei rituali indigeni dell’America del sud partendo dai racconti suggestivi Claude Lévi Strauss.
Da questa scintilla, il processo di ricerca è iniziato nel 2019 e ha attraversato la crisi pandemica, rispondendo inaspettatamente al periodo storico che stavamo respirando: l’esigenza di ritrovare dei rituali intesi come eventi sociali, recuperare la matrice dell’atto scenico e le fondamenta della cultura come connettore sociale.
Il rituale de “Il mondo altrove: una storia notturna” si manifesta nell’incontro tra due soggetti, ovvero il corpo danzante e gli osservatori e le osservatrici. In questa imprescindibile relazione tra chi osserva, la mia figura si predispone ad essere un traghettatore per accompagna il pubblico in un viaggio magico, intessendo un discorso fatto non di parole, bensì di gesti e movimenti.
Con questo dialogo muto e invisibile mi sono avvicinato a un mondo altro.
In qualche modo, la pandemia è stata per me una rivelazione: immaginare un altrove nel quale immergersi e rifugiarsi era necessaria per poter far fronte emotivamente al momento così difficile che stavamo vivendo.

L’esigenza di indossare una maschera è emersa in modo del tutto naturale: a partire dall’antica tradizione dell’arte drammatica, la maschera è da sempre portatrice di una trasformazione della figura; essa non implica l’annullamento del volto, bensì è uno strumento che per l’interprete diviene una sorta di filtro che gli permette di disinibire il proprio essere e attivare una trasformazione profonda. Con la maschera posso assumere le sembianze di un essere umano, animale o vegetale.

Che tipo di relazione si instaura con il pubblico?
Nello spettacolo la relazione è intima e delicata. Scegliendo di presentare la creazione in uno spazio urbano, predispongo il mio corpo a percepire la relazione in modo sferico e ad accogliere gli elementi naturali e architettonici dello spazio.
Lo spazio scenico è delimitato solo da un cerchio di luce che dichiara il confine tra lo spazio dell’azione e lo spazio della visione. Il rituale avviene durante il crepuscolo e mentre la notte buia si fa spazio, la vicinanza tra interprete e pubblico acquisisce una vividezza maggiore.
Questo spazio di confine è sottile e lo si può toccare con mano: nel momento in cui mi avvicino ad una persona, il dialogo diviene ancora più delicato e intimo. Nel frattempo il resto del pubblico vive un momento di sospensione e diviene testimone di quella delicatezza.
Il pubblico si trova in uno stato di contemplazione e quando il silenzio e l’attenzione scorre tra le persone, accade per me una piccola magia che accolgo come se fosse un dono.

Chi ha realizzato la maschera e perché proprio quella?
Ho realizzato personalmente la maschera e ho accompagnato i miei compagni di viaggio (altri 3 interpreti che danzano lo spettacolo in una versione di quartetto) nella realizzazione della propria. Le maschere sono nate quindi parallelamente alla ricerca coreografica.
Ho iniziato per primo a lavorarci in modo da identificare il volto della mia maschera, per poi comprendere come poter trasmettere questo processo agli altri interpreti.
Partendo da un reticolato geometrico di stoffa rigida, abbiamo individuato la sagoma di ogni maschera. In ogni residenza artistica portavo con me una scatola di legno con dentro tantissimi elementi di ottone, rame, stoffa, perle. In ogni occasione sperimentavamo insieme diverse combinazioni di forme e cromie, appoggiando gli elementi sul reticolo di stoffa per creare dei tratti somatici: prima di tutto gli occhi, poi la bocca, le sopracciglia, le gote e tanti altri dettagli.
La sera cucivo i dettagli di ogni maschera in modo da poterla utilizzare il mattino seguente.
Fu un processo lungo e ad ogni sessione creativa la maschera prendeva sempre più forma.

Avviene lo stesso con gli elementi che utilizzi durante la performance, che inizialmente sembravano pietre e poi abbiamo scoperto essere in legno?
Sì, i sassi che raccolgo sono fatti di legno. Nel “mondo altrove” tutto quello che si vede in scena richiama qualcos’altro. Mi intriga questa idea di sfasamento, perché predispone chi osserva a rimettere in discussione la propria percezione delle cose.
Quelli che sembrano sassi, ci appaiono poi come piccoli e rudimentali giochi in legno da impilare. Lo stesso avviene nell’espressività della maschera che varia a seconda della postura del mio corpo. La mia maschera può rivelarsi dolce come il viso di un bambino oppure spaventosa come un teschio. Quelli che io definisco occhi, altri potrebbero vederli come guance.
C’è dunque qualcosa di conturbante negli oggetti, nella figura sciamanica e nel percorso sonoro del compositore Giacinto Scelsi che definisce la linea drammaturgica dello spettacolo.

Qual è il tuo rapporto con la maschera?
La maschera – intesa come oggetto – è vuota. Questo non significa che sia vacua, bensì ciò che la rende viva è l’energia e l’attenzione che l’interprete proietta su di essa.
La maschera è un oggetto complesso: indossandola, sento di entrare in contatto con un’entità altra e riesco a trasmetterne l’emotività. Paradossalmente quando indosso la maschera, è lei a indossare me guidando i miei gesti. Essa mi aiuta e sostenere tutta la mia energia di interprete. Indossandola mi sento nascosto, protetto, disinibito ma se non riesco ad entrare in ascolto con la maschera, se non trovo dentro di me un equilibrio e un ordine, mi sento estremamente esposto e fragile, definitivamente annientato.

Dal punto di vista del corpo e della danza hai condotto uno studio sul “teatro no”?
La mia presenza scenica e la forte relazione con il suono hanno una matrice orientale: l’azione è pensata per “fare spazio”, dunque si basa sul “non fare”, sul “farsi vuoto”, proprio per predispormi ad accogliere gli elementi esterni che concorrono alla creazione dell’evento rituale.
All’interno dello spettacolo tuttavia non sono presenti particolari tecniche attoriali inerenti al teatro No.
Non volendo infatti appropriarmi di una cultura e di una tradizione altra o proporre in scena una trascrizione simbolica, il mio desiderio è stato quello di portare alla luce la sensazione di straniamento che si prova nel momento in cui ci troviamo di fronte a qualcosa che non riusciamo a comprendere, a qualcosa che non riesci a descrivere o nominare.
Questa sensazione porta il pubblico ad essere attivo e concentrato, proprio perché in qualche modo sta partecipando al rituale pensando, studiando e decifrando ciò che accade in scena.

Nella gallery le foto di Carolina Farina


NICOLA GALLI
/ Il mondo altrove: una storia notturna

Bio Compagnia

Nicola Galli si occupa di ricerca corporea, declinata in azioni e dispositivi che spaziano dalla coreografia alla performance, dall’installazione all’ideazione grafico-visiva. Dal 2010 sviluppa un’indagine coreografica incentrata sul rapporto tra uomo e natura. A partire dalle scienze naturali, dalla geometria e astronomia il suo sguardo è affascinato dall’anatomia umana, la proporzione e il dettaglio.
Nel suo lavoro, luce e suono dialogano con il corpo, centro irradiante di un discorso artistico, che si sostanzia in una sensibilità scenica votata all’esplorazione del movimento come panorama ibrido di saperi.
Dal 2014 è artista sostenuto dall’organismo di produzione TIR Danza.

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