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Intervista collettiva della RE.M al performer di CIE LITTLE GARDEN nel Parco di Torre del Fiscale

Eravamo seduti, in semicerchio, dietro gli acquedotti del Parco di Torre del Fiscale. Davanti a noi un mucchio di erba a formare una sorta di nido enorme definiva il setting scenico della performance. Un uomo al centro della scena. Apre la bocca. Emette versi acuti e gutturali. Un uomo? Un uccello? Si inarca. Apre le braccia accennando un volo. Si piega. Ruba una borsa da una signora seduta. La rovescia. Tira fuori un telefono. Lo scruta. Una scimmia. Si avvicina a una bambina. Lei piange e abbraccia il padre. Il gorilla se ne va, indifferente. La bambina ora ride. Continua a giocare con le sue palline. Le lascia. Si mette in posizione eretta. Canta. Forse è un uomo.
Questo è successo, tra Fabrizio Solinas e noi, che lo guardavamo increduli ed entusiasti durante la giornata dedicata alle nuove generazioni di spettatori del festival Attraversamenti Multipli. Il dubbio che avessimo davanti un animale ci ha accompagnato fino alla fine, fino a che non abbiamo deciso di intervistarlo. Fabrizio Solinas, che con il suo sorprendente CIE Little Garden – uno spettacolo di giocoleria sull’amore – prova a sopravvivere allo sguardo del pubblico attraversando svariate trasformazioni per scoprire il suo lato umano.

foto Carolina Farina

Come nasce Little Garden?

Ho fatto tanta giocoleria nella mia vita, ma era giocoleria classica, come tutti, e questa cosa non mi bastava più; volevo che la gente, guardando il mio spettacolo vedesse qualcosa di unico, di singolare. Così ho studiato in due scuole di circo, una a Torino ed una in Francia. Nella scuola di Lille non avevo un vero e proprio professore di giocoleria; i giocolieri si allenavano dentro un hangar, ed io praticamente mi ci sono chiuso dentro per tre anni.
Quindi da un parte ha influito questa ricerca, e dall’altra il fatto che mi rendevo conto di avere, senza volerlo, la tendenza a rubare i trucchi degli altri. Mi capitava spesso di guardare video di giocoleria, di andare a dormire e di svegliarmi l’indomani con un’idea geniale, per poi rendermi conto che non era mia.

Allora mi sono chiesto: quand’è che non mi lasciavo influenzare dagli altri? La risposta è stata semplice: quando ero piccolo. Da bambino tutti i miei amici adoravano il calcio, a me invece piaceva tantissimo giocare a Jumanji; mi lasciavo rapire dal gioco, come nel film, e nella giungla osservavo e studiavo le scimmie, le tigri, i rinoceronti, e desideravo con tutto me stesso di avere un super-potere che mi permettesse di trasformarmi in tutti gli animali del mondo. E sono fermamente convinto che se uno si allena poi ci riesce.

E quindi è nata l’interazione tra giocoleria e mondo animale?
Si, non volevo star fermo di fronte al pubblico ad eseguire i miei numeri. Volevo muovermi, rompere la simmetria che caratterizza la giocoleria tradizionale ed esplorare forme nuove, e mi sono reso conto che le coreografie facevano crescere la giocoleria e viceversa. Poi volevo che il corpo parlasse al posto della mia voce, per farmi capire da tutti dappertutto nel mondo. Così a poco a poco ha preso forma Little Garden.

foto Carolina Farina

Come hai lavorato sul corpo per arrivare alla plasticità “animale” che caratterizza il lavoro?

Ho lavorato molto guardando. Ho smesso di guardare video di giocoleria e ho iniziato a guardare solo documentari sugli animali. Ho guardato gli animali, ho filmato animali, ho letto cose sugli animali, e ogni volta aggiungevo questa domanda: “Mi piace questo uccello che fa quella cosa strana con le ali, come faccio a fargli fare un trucco di giocoleria?”. Così tiravo fuori cose nuove.
E poi ho studiato danza classica e contemporanea, ed infatti il mio spettacolo non è altro che una grande coreografia.
Poi mi piacciono molto i film splatters, e quindi mi chiedo: “Come posso rompermi un braccio senza rompermelo davvero ma usando un trucco?”.

Quanto è importante nel tuo spettacolo l’interazione con il pubblico?

Importantissima. Ho difficoltà a fare uno spettacolo in cui il pubblico non c’è, in cui si fa finta che il pubblico sia Dio e io non lo posso vedere. Per me quella è televisione: tu accendi il televisore, puoi dirgli quello che vuoi e nessuno reagirà mai. Il mio spettacolo è sempre diverso ed è sempre lo stesso, perché le routine di giocoleria sono costruite nel minimo dettaglio, ma è proprio questa struttura solidissima che mi rende libero di muovermi in piena libertà, di uscire e rientrare nel gioco con agilità. D’altro canto mi diverto talmente tanto a farlo che lo farei anche da solo. Ma col pubblico è più bello.

Oggi è capitato che alcuni dei bambini avessero paura all’inizio, per poi rimanere eccitati a guardare. Come gestisci e come ti relazioni con le reazioni dei più piccoli?

Se un bambino andasse allo zoo, e avesse un pacchetto di patatine, e una scimmia glielo rubasse, e lui si mettesse a piangere, la scimmia non andrebbe a chiedergli scusa. Mangerebbe impassibile tutte le sue patatine, e se il bambino urlasse forte, la scimmia urlerebbe più forte. Io mi comporto allo stesso modo. La risposta del bambino dipende dal bambino, e soprattutto dai suoi genitori. Ci sono genitori che gli dicono “è uno scherzo, non ti farà mai niente di male” ed altri invece che prendono le parti del figlio e si arrabbiano con me per averlo fatto piangere. A me non importa, mi prendo la responsabilità delle mie azioni, e se qualcuno mi dà un ceffone io me lo prendo. Preferisco fare una cosa che fa impazzire pochi piuttosto che qualcosa che accontenta tutti. Sia chiaro, la mia non vuole essere una provocazione, cerco semplicemente di essere il più vero possibile…e a volte rompo qualche uovo.

Little Garden è alla sua replica numero 143. Cosa hai capito durante tutto questo tempo dal pubblico e delle sue reazioni?
Questa è una bella domanda, non me l’aveva mai fatta nessuno. Cosa ho capito? Che quando cambio paese cambia il suono dello spettacolo, perché cambia il pubblico, ma incredibilmente il risultato finale è lo stesso. Per intenderci, quando mi sono esibito in Turchia c’era silenzio assoluto, sembrava quasi che nessuno mi stesse guardando, e poi standing ovation finale.
Oppure mi è capitato di avere di fronte un pubblico molto aggressivo, gente che mi urlava addosso durante lo spettacolo, e poi, alla fine, quelle stesse persone venivano a ringraziarmi e mi dicevano “Fighissimo, torniamo anche domani!”- e io avrei voluto rispondere “Vi prego, non tornate!”.
Un’altra cosa che ho capito è che, indipendentemente dal livello culturale delle persone, la gente lo recepisce sempre, nel bene e nel male. Perché è animale, e tutti almeno una volta nella vita abbiamo visto un animale.
Una volta un bambino quando facevo l’uccello ha detto: “Shhhh, fate silenzio, se no vola via!”
Per me è stato il massimo, perché se anche una sola persona, per un attimo, crede in questa magia, allora per me va bene.

Quanti animali abbiamo visto in Little Garden?
Ci sono soprattutto rettili, uccelli e scimmie. Di rettili ce sono tantissimi, sono andato dalla lucertola più piccola alla più grande, T-Rex, velociraptor, c’è una lucertola dal collare australiana, un camaleonte che si muove a scatti, poi un paio di serpenti, c’è un granchio violinista, uno scimpanzé, un gorilla, e poi un sacco di uccelli del paradiso. Ho mischiato le danze dell’accoppiamento di ciascuno di questi animali per creare una super danza dell’accoppiamento.

foto Carolina Farina

Ci hai detto che lo spettacolo è scritto nel dettaglio, eppure nell’ultima parte ci sembrava che stessi cecando di capire spontaneamente quando fosse il momento giusto per finire. È così?

Diciamo che io so che canterò “Little person” di Matt Maltese, la canzone finale di un film che si chiama “Synecdoche, New York”, cantata in un modo tutto mio; ma non so in che momento inizierò a cantarla, e non so a quale persona fra il pubblico la dedicherò. Se non fosse chiaro, la storia che io volevo raccontare è questa: vado dalla ragazza più bella della scuola, le dico “Vuoi uscire con me?” e lei mi dice “No!”.
Quindi scelgo qualcuno nel pubblico, faccio questa grande danza dell’accoppiamento, se trovo un rivale cerco di fargli paura, poi, alla fine dello spettacolo, guardo questa persona negli occhi e le dico “Io vorrei stare con te!”. E spero sempre che questa persona non si alzi e non venga da me, perché io voglio perdere. Secondo me è più forte. Tutti si possono riconoscere una sconfitta ma non tutti in una riuscita.
E poi non saprei cosa fare!

E invece come hai lavorato sulla voce per riprodurre i versi degli animali?
Ho guardato moltissimo Jurassic Park: ho preso l’audio, l’ho messo in cuffia e tutte le domeniche provavo. Il mio vicino mi odiava, ma io stavo lì a provare comunque. Gli uccellini li ho ascoltati a ripetizione, ho guardato persone che facevano richiami, perché non volevo fischiare, volevo proprio che la gente dicesse: “Ma come fa ad uscire questo suono dalla sua bocca?”.

Essere nato e cresciuto in Sardegna ha influito in questo tuo percorso creativo?
Non completamente, penso però che c’entri abbastanza. Ho tanti amici che hanno fatto la scuola di circo quando erano piccoli, e ricordo che a loro insegnavano come risolvere un problema sul palco, la soluzione giusta al momento giusto. A casa mia non c’era niente, potevi giocare a calcio con le scarpe o scalzo, questa era l’alternativa. Se volevi fare altro te lo dovevi inventare.
E io me lo sono inventato.

articolo a cura di Maria Chiara Bisceglia e Giulia Lannutti

intervista collettiva a cura della RE.M

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